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Io e Marley

Io e Marley di John Grogan edito da Sperling & Kupfer. Prima edizione 2006.

Libro che sicuramente amerete se, come me, amate gli animali e i cani in particolare; racconta il rapporto tra l’autore (famoso giornalista americano) e il suo cane Marley appunto. Libro da cui è stato tratto un film molto bello, con Owen Wilson e Jennifer Aniston.

Quando mi accingevo a leggere questa opera l’ho detto ad un amico che mi ha risposto: “ma allora vuoi proprio piangere”. Ebbene, in questo romanzo a volte si piange, ma ci si fanno anche delle grasse risate seguendo le avventure di Grogan e della sua famiglia alle prese con quello splendido Labrador che verrà battezzato col nome altisonante di Marley (non immaginerete mai perchè!).

John e Jennifer sono una coppia di sposini che hanno già avuto esperienze meravigliose con i cani della loro infanzia e che decidono di prendere Marley con lo scopo (nemmeno tanto recondito) di mettere alla prova l’istinto materno di lei.

Forse l’ignoranza riguardo ai Labrador, forse la miopia della motivazione, forse la dabbenaggine causata dall’amore in cui la coppia è immersa, fanno si che siano totalmente impreparati a gestire prima il cucciolo e poi il cane adulto che, proprio come un terremoto, spacca, rompe, mangia, sbava, distrugge, fa volare i tavolini dei ristoranti e soprattutto ha una paura incontrollabile dei temporali.

Seguirete John e Marley nelle loro scorribande per le passeggiate del cane e vedrete nascere tra i due un rapporto di mutua dipendenza in cui a volte è il cane a prevalere e il padrone a soccombere.

Vi sganascerete durante il primo tentativo di educazione di Marley o durante l’unica e sola passeggiata a “dog beach”; lo amerete incondizionatamente quando si troverà a dover dimostrare la sua fedeltà e il suo essere un cane sensibile e protettivo.

Nel divenire degli eventi i due protagonisti umani avranno dei figli ed è straordinario come un cane (potenzialmente distruttivo) sia dolcissimo e assolutamente innocuo con i bambini.

Dalle pagine del romanzo esce l’immagine di un cane che mantiene sempre vivo il suo lato di cucciolo; di come gli piaccia sempre giocare con il suo padrone, di come esploda la sua felicità al rientro dei padroni e di come invece, quando fa una marachella o distrugge qualcosa, sappia riconoscere la propria colpa.

Il tempo passa e i bambini crescono, ma anche il tempo del cane passa e presto (troppo presto) John si accorge che il suo cagnone è un anziano a cui comincia ad imbiancare il pelo sulla testa; nonostante l’anzianità Marley però non cambia mai. Continua ad essere quello splendido compagno di vita per tutta la famiglia Grogan.

I rapporti diventano profondissimi, indistruttibili e proprio quando la dipendenza reciproca si fa più evidente, ecco che inizia la lenta ed inarrestabile decadenza canina.

Iniziano i problemi alle anche; il cane che faceva le scale alla velocità di una pallottola ora arranca lentamente; si incominciano a vedere i risultati di anni di rosicchiamenti ed ingestione di cappucci di penne, soldatini di plastica, pezzi di moquette e di tutto quello che non fosse al di fuori della sua portata.

E’ in questo momento che John e Jennifer capiscono che, l’amore per quel cucciolone è tale da non permettere loro di vederlo soffrire e che al prossimo caso di “torsione” dello stomaco semplicemente lo faranno “addormentare” dignitosamente. (Dignità che in Italia è concessa agli animali ma preclusa agli umani!).

Sono certo che l’unico modo di concludere questo pezzo sia usando le parole con cui lo stesso autore ha chiuso il suo libro: “A un cane non importa se sei ricco o povero, istruito o analfabeta, intelligente o stupido. Dagli il tuo cuore e lui ti darà il suo… Nonostante tutte le delusioni e le aspettative disattese, Marley ci aveva fatto un dono, spontaneo e inestimabile. Ci aveva insegnato l’arte dell’amore incondizionato. Come darlo, come accettarlo. Dove c’è questo amore, gli altri pezzi vanno quasi sempre a posto…”.

P.S: Di quante persone si può dire lo stesso?

Libro molto consigliato.

 

Ho smesso di piangere

Ho smesso di piangere di Veronica Pivetti edito da Mondadori. Prima edizione 2012.

E’ un gran bel libro che tratta di un argomento difficile quale è la depressione, e della difficoltà dei malati di far credere ai “sani” la propria condizione. Veronica racconta con sincerità, e quella ironia tipica del personaggio la sua odissea, il suo viaggio di rinascita.

Scopo nemmeno troppo velato di questo scritto è sicuramente quello di dare testimonianza della grave malattia che affligge più persone di quelle che potremmo immaginare, ma anche quello di cercare di infondere una speranza a tutti coloro che sono malati.

Indubbiamente si tratta di un libro verità che racconta una sofferenza durata anni e lascia il lettore basito su quanto sia stato bravo il personaggio pubblico Pivetti, per tutto il tempo della sua malattia, a recitare ruoli brillanti mentre “moriva” dentro, mentre tutto quello che anelava nel cuore era semplicemente morire.

La causa scatenante della depressione di Veronica è stato un problema tiroideo, ma non è poi così importante quale sia stato il motivo (che per ogni malato può essere diverso). Il punto è che la malattia è latente nell’animo e poi all’improvviso, come un interruttore pronto a scattare, si attiva con rabbia. C’è come qualcosa che si rompe dentro, che si alza ed inizia la sua opera distruttiva e che, per le persone famose, di successo e ricche è ancora più difficile da far credere specie, se come nel caso di Veronica Pivetti, sono dedite all’ironia.

Seguire la nostra “eroina” tra medici che non hanno la capacità di ascoltare, buone amiche (per fortuna che esistono) che si assumono il ruolo di “cani guida per ciechi” e fans ignari (che vorrebbero la corrispondenza perfetta tra personaggio e attore), significa vederla compiere il suo calvario che la porta a riacquistare il suo equilibrio senza perdere la verve e a conoscersi molto più in profondità.

Il tutto ovviamente raccontato con quello spirito goliardico che personalmente associo a Veronica Pivetti e a quella ironia che trasuda dalla sua pelle. Durante la lettura del libro me la vedevo girare per Milano (o Roma a seconda dei casi) per recarsi dai vari specialisti o per andare dalla propria casa a quella dell’amica che l’ha sostenuta (certe volte non solo psicologicamente) con quella sua adorabile aria stralunata e trasognata che tanto amo in lei.

Ho trovato molto triste e al contempo molto vero (e sono contento che l’abbia scritto) il racconto del rapporto interrotto con il suo cane; Veronica ha capito che, nel momento più buio della depressione, non c’era spazio per nessun altro al di fuori di sé stessa. Che tutte le sue energie dovevano essere focalizzate nel tentativo di superare quel grave handicap che le era caduto addosso. Ripeto, è molto triste ammettere di aver abbandonato il proprio cane, ma al contempo era l’unica cosa che poteva fare. A parziale scusante diciamo che il cane non è stato abbandonato, ma soltanto “parcheggiato” per qualche tempo a casa dell’amica.

C’è una frase che mi piace molto e che con la quale voglio chiudere questo breve racconto, dice: “Una volta ero perfettamente funzionante, ero nuova di trinca. E credevo che fosse quella la verità. Ora sono un po’ rattoppata, ho un’anima patchwork, e una psiche in divenire. Ed è questa la verità. Ma va bene così, perchè la vita si fa con quello che c’è…”

Ultima notazione veloce. Non pensate che sia un libro triste e noioso; ci si diverte un sacco in questo libro, non fosse altro che per il ritrovato spirito dell’autrice. Ci si ritrova a sorridere delle sue sventure perchè tutto viene affrontato seriamente ma sempre con quella leggerezza d’animo e quel sorriso un po’ sghembo che è tipico di Veronica Pivetti. Sembra sempre che stia per dirne una delle sue o per fare una delle sue “figure”.

Libro consigliato a tutti quelli che vogliono capire di più di questa malattia del nostro tempo, e anche a tutti quelli che vogliono vedere il personaggio pubblico svestire i panni di comico e conoscere il vero cuore della donna Veronica Pivetti.

Caino

Caino di José Saramago edito da Feltrinelli. Prima edizione 2009.

Per la prima volta, un libro di Saramago mi ha deluso! Ma proprio deluso deluso!

Non ho ritrovato in questo ultimo libro dell’autore lusitano, nulla di tutto quello che mi ha affascinato nei tanti altri suoi scritti, letti in precedenza.

Non c’è paragone con i suoi libri anteriori, nessuna delle meraviglie che mi avevano affascinato negli altri suoi romanzi è presente in questo ultimo libello.

Sembra quasi che lo scrittore abbia tentato un cambio di stile; purtroppo, personalmente, non l’ho trovata una buona idea.

Oppure l’argomento trattato era talmente vasto e complesso che, nel tentativo di renderlo facile e scorrevole, l’ha trasformata in una storia banale e puerile.

Provo a darne un breve riepilogo.

Come dice il titolo, il libro si occupa della vita di Caino, quello biblico e prende le mosse dalla genesi del genere umano con la creazione, da parte di Dio, di Adamo ed Eva con la conseguente cacciata dal paradiso terrestre eccetera eccetera.

Quindi “l’allegra” famigliola viene cacciata dall’Eden e si ritrova a vagare in un deserto senza alcuna speranza di sopravvivenza visto che non sanno fare nulla ne hanno idea di come procacciarsi cibo e vestiario. Miracolosamente si accodano ad una carovana che li porta in un villaggio dove nascono i due figli, e il successivo omicidio di Abele da parte di Caino.

E fino a qui la storia è arcinota; ma d’ora in avanti nulla sarà come ci si aspetta. Caino scappa dalla sua tribù e comincia a girare per non meglio identificati luoghi dove si imbatte nei più svariati personaggi della Bibbia; quando gli viene chiesto il suo nome, dice di chiamarsi Abele.

Cacciato e condannato ad una vita errabonda, il destino di Caino è quello di un povero mucchio d’ossa che viaggia a dorso di mulo, attraverso lo spazio e il tempo; ora da protagonista ora da semplice spettatore, avventuriero e mascalzone, visita tutti gli episodi più significativi della narrazione biblica.

La cosa che maggiormente mi ha deluso in questo libro è il fatto che gli eventi a cui partecipa il protagonista, sono temporalmente diversi e l’unica giustificazione che l’autore riesce a trovare è quella dell’intervento divino che fa viaggiare Caino avanti e indietro nel tempo come uno jo-jo.

Saramago, rende Caino un essere umano, né migliore né peggiore di tutti gli altri. Al contrario, il Dio che viene fuori dalla narrazione è un dio malvagio, ingiusto e invidioso, che non sa veramente quello che vuole e soprattutto non ama gli uomini.

Qui c’è l’unica cosa di tutto il libro che mi è piaciuta; infatti Caino dice chiaramente a Dio quello che pensa di Lui e del Suo comportamento, soprattutto gli rinfaccia la strage dei bambini presenti a Sodoma e Gomorra.

Degno di nota è anche la conclusione dell’episodio dell’arca di Noè; unico momento che riesce a strappare un sorriso e a risvegliare il lettore da una noia mortale.

Riscrittura personalissima della Bibbia, questo libro è un’invenzione letteraria ed un tentativo di allegoria che mette in scena l’assurdo di un Dio che appare più crudele del peggiore degli uomini.

Ribadisco che per tante ragioni questo libro non mi è proprio piaciuto. I personaggi sono poco raccontati, le ambientazioni sono descritte in maniera puerile, gli avvenimenti (tranne quelli biblici) sono banali, le motivazioni del viaggio di Caino sono confuse ed incomprensibili.

Anche lo stile di scrittura di Saramago è diverso dal suo solito. Certo la punteggiatura continua ad essere un’ipotesi ma non c’è la stessa energia che si trova in altri suoi libri. Sembra quasi che il libro sia stato scritto da una persona diversa da quella che ha prodotto capolavori come “L’uomo duplicato”, “Cecità” “Vangelo secondo Gesù Cristo” e tanti tanti altri.

Siamo forse di fronte all’opera di un ghost-writer?

Libro ovviamente non consigliato.

 

L’ombra del vento

L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafon edito da Mondadori, prima edizione 2004.

Compito difficile scrivere di questo libro. A me piace moltissimo tanto è vero che l’ho già riletto tre volte però è anche vero che è un libro abbastanza complicato.

Scritto indubbiamente molto bene ma la sinossi sarà difficile perchè essendo un giallo posso dire poco. Sicuramente Zafon è un grande, conosce a menadito l’arte di scrivere. Sa come mantenere alta la tensione e sa come incollare l’attenzione del lettore alla trama.

La trama appunto… vediamo di dare un’idea senza svelare troppo per chi (e credo siano pochi) ancora non l’avesse letto.

Il libro è ambientato nella Barcellona del 1945; la città più straordinaria e magica che si possa immaginare.

All’età di dieci anni il giovane Daniel Sampere viene accompagnato dal padre in un posto straordinario, “Il cimitero dei libri dimenticati” da cui uscirà poco dopo stringendo tra le braccia un libro maledetto, dell’autore Julian Carax, che cambierà il corso della sua vita introducendolo nei misteri ed intrighi legati all’autore di quel libro.

Per molti anni, infatti, Daniel inseguirà il fantasma di Carax, scoprendo che qualcuno ha voluto a tutti i costi, anche uccidendo, distruggere fino all’ultima copia dei suoi libri. Tanto che quella nelle sue mani è forse l’ultima rimasta.

Dal passato emerge una storia di passioni illecite, di amori controversi e impossibili, di amicizie e lealtà assolute, di follia omicida e, soprattutto, un macabro segreto gelosamente custodito in una villa abbandonata.

Una storia in cui Daniel ritrova poco a poco inquietanti parallelismi con la propria vita.

E’ sicuramente un libro giallo ma è anche un libro storico e una tragedia amorosa in cui i bagliori del passato si riverberano nella formazione del protagonista.

Moderno feuilleton, precisissimo nelle ambientazioni e con personaggi indimenticabili che si muovono in una Barcellona dalla duplice identità, quella ricca ed elegante degli ultimi splendori del modernismo e quella cupa, opprimente, del franchismo, tetra miscela di povertà e repressione.

Una precisazione sui personaggi. Zafon è bravissimo a disegnare le personalità degli “attori”; in brevissime descrizioni riesce a rappresentare l’anima della persona lasciando al lettore il compito di immaginare quello che non viene raccontato. Attenzione però perchè in questo libro quasi nessuno è quello che si pensa. Tutto il romanzo è farcito di personaggi che non sono chi dichiarano di essere, uomini che non hanno una faccia e si nascondono negli angoli bui della città; donne che dichiarano di essere sposate con uomini trattenuti in prigione, ma la realtà è molto diversa e addirittura abbiamo anche un barbone che diventa un cardine per la risoluzione del mistero.

Insomma nella lettura di questo libro bisogna stare molto attenti; tutto quello che viene raccontato è importante per la comprensione di quello che verrà svelato ovviamente soltanto al termine.

Poche parole sulla città; sarà che ho passeggiato parecchio per Barcellona, ma riuscivo ad immaginare i movimenti dei vari protagonisti nel cuore antico della città. Le ambientazioni scelte dall’autore regalano a Barcellona quell’aura di mistero e meraviglia che ben si accompagna ai miei ricordi.

Forse si capisce che Barcellona è una delle mie città preferite ma, anche se non ci siete mai stati, leggete questo libro e la voglia di farci un giro crescerà a dismisura.

Ovviamente libro consigliato.

La regina di Pomerania

La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta di Andrea Camilleri edito da Sellerio prima edizione 2012.

Io proprio non so come faccia. Probabilmente Camilleri è un genio perchè anche questa ennesima fatica è stupenda.

Si tratta della raccolta di otto storie minime che si svolgono a Vigàta tra il 1893 e il 1950. Si va dalla storia di un amore alla “Giulietta e Romeo” alla vita di un ragazzo che crede di non avere un padre per scoprire poi che invece ne ha una folla, passando attraverso la storia della Regina di uno stato a scadenza proprio come una mozzarella.

Come suo solito Camilleri, da quell’abile pittore che è, dipinge i personaggi e le ambientazioni in maniera meravigliosa Per i personaggi gli bastano poche pennellate per stimolare la fantasia del lettore che termina l’immagine appena abbozzata. Riesce a far amare o odiare i vari attori esattamente come vuole lui.

L’autore prende il lettore per mano e lo trasporta in una realtà differente ma uguale, strana ma consueta, rassicurante e al tempo stesso spaventosa.

Insomma in questo libro c’è il meglio di Camilleri e la sua capacità affabulatoria, senza peraltro l’ingombrante presenza di Montalbano che ormai è inscindibilmente collegato al nome di Camilleri.

Il libro è scritto in dialetto ma questo anziché essere un limite è un vantaggio, perchè nella parlata della gente si sentono tutti i sentimenti che provano. Forse qualcuno non molto avvezzo alla lingua potrà trovare qualche difficoltà iniziale, ma sono convinto che perseverando nella lettura avverrà nuovamente la magia che permette di illuminare la mente dei lettori a Bolzano come a Roma, a Cagliari come a Treviso.

Nel corso del questi otto racconti troviamo, in ordine sparso, battibecchi da circolo, lambiccati bizantinismi, ludi e motteggi, eterne liti familiari, infervoramenti carnali, sbatacchiamenti, oneste mignotterie, dolorosi stupori e premurose cordialità.

Il libro non è strutturato cronologicamente, quindi si salta tranquillamente da fine ottocento a metà novecento per poi tornare ai bagliori del ventesimo secolo.

I personaggi sono vari e compositi; si passa da “una Giulietta che sancisce l’imbecillità del suo Romeo ad un diplomatico e impassibile truffatore; c’è il console onorario di un regno provvisorio esportatore di cani dati in saldo; una Cenerentola che è una melarosa dal letto ospitale; due gelatai leali contendenti per amore e per dispetto; un marchese dall’eccitazione costante e alla fine crudele; un asino chiamato Mussolini che verrà ribattezzato Curù; un tavolinetto a tre piedi, che sa come castigare l’imprevidenza di un neofita delle sedute spiritiche; un’epidemia di lettere anonime che portano alla luce verità vere e altre meno e altre storie e personaggi straordinari e ordinari, buoni e cattivi.

Insomma in questo bellissimo libro c’è tutto il Camilleri conosciuto eppure, proprio come un prisma che colpito dalla luce con una angolazione differente scatena nuove meraviglie, si vede un nuovo volto dell’autore, una nuova prospettiva che, ancora una volta, lascia il lettore stupefatto dalla quantità di fantasia e dalla bravura nel raccontare gli uomini, le loro vite, speranze e disgrazie.

Ovviamente libro molto consigliato.

 

Il campione innamorato – Giochi proibiti dello sport

Il campione innamorato – Giochi proibiti dello sport di Alessandro Cecchi Paone e Flavio Pagano edito da Giunti prima edizione 2012.

Dunque, sono un po’ confuso riguardo a questo libro.

Viene trattato il tema dell’omosessualità nel mondo dello sport ma contemporaneamente si racconta della storia dello sport dall’antichità ai giorni nostri e di come l’omosessualità venisse vissuta nei tempi antichi.

Una storia di sport che si confronta in maniera inedita con il lato sentimentale, e per questo più genuinamente umano, dei suoi protagonisti.

Ogni capitolo finisce con il racconto della vita di un campione dello sport che ha combattuto la propria battaglia sui campi sportivi ma soprattutto quella dell’accettazione del proprio “stile di vita”; ci sono quelli che hanno vinto e del loro outing ricordano soltanto i lati positivi, ma ci sono anche le storie che sono finite male.

Tra cambi di sesso e misteri del doping, ermafroditi, stupri “correttivi”, chiaroscuri di vittorie e di sconfitte sul campo e nell’anima, passando per il giallo irrisolto di un asso del pallone che finì in tragedia del desiderio e degli affetti, questo libro è fatto da mille avventure di vita prima che di sport.

E’ un libro che coinvolge e ci sprona a scendere in campo contro ogni forma di razzismo, omofobia o prevaricazione in cui la sola posta in palio è che ognuno possa essere libero di diventare se stesso.

Sicuramente un libro che testimonia anche quanta strada ancora resta da percorrere sulla via della civiltà.

I racconti dei campioni sono pezzi indimenticabili di letteratura e di vita, a tratti carichi di sofferenza, altre di riscatto e di successo come persone, prima che come uomini e donne di sport.

Mi ripeto, l’argomento c’è, le storie pure, la cronicità anche eppure non sono sicuro che il tutto si armonizzi come dovrebbe, che il miracolo avvenga come la lievitazione perfetta di un dolce nel forno; le parti storiche e quelle monografiche sembrano essere slegate, come se gli autori avessero lavorato separatamente senza mai comunicare tra loro e senza mai avere dall’altro un feed-back sul lavoro che stava preparando.

Libro interessante che però, a mio modesto parere, doveva essere strutturato armonizzando meglio la parte storica e le storie dei vari campioni sportivi; oppure separando nettamente le due parti, prima raccontando lo sviluppo storico dello sport dall’alba dei tempi fino ai giorni nostri e successivamente allegando tutte le storie dei campioni.

Libro “educativo” ma forse un po’ slegato.

 

1Q84

1Q84 di Haruki Murakami edito da Einaudi, prima edizione 2011.

 “Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola”. Questa è la frase con cui il tassista ammonisce Aomame, una dei due protagonisti di questo libro. Aomame è una ragazza particolare che la vita ha colpito; lei è caduta, ha sofferto e si è rialzata e adesso fa un lavoro “particolare” sotto le rassicuranti vesti di una insegnante di stretching.

L’altro protagonista è Tengo un uomo che insegna matematica in una scuola preparatoria e scrive storie e romanzi che nessuno ha ancora apprezzato al punto da pubblicare. A Tengo viene dato un libro da leggere; il libro si chiama “La crisalide d’aria”. E’ eccezionalmente buono, ma sembra scritto da una bambina delle elementari; ma l’idea e la storia ci sono. E’ così che l’editore Komatsu decide che Tengo riscriverà il libro usando il manoscritto come traccia e base.

La storia si dipana nella Tokio del 1984. Il titolo si basa sull’assonanza tra la lettera Q e il numero 9 che in giapponese hanno la stessa pronuncia e qualcuno vede in questo titolo un omaggio al capolavoro di Orwell.

Come tutti noi, anche Aomame e Tengo hanno la loro storia che ci verrà raccontata nel corso del libro, e nel frattempo continuano a vivere la loro vita più o meno serenamente, a rincorrere i propri sogni, ad incontrare persone, a cercare di raggiungere il massimo della felicità possibile.

Il 1984 e l’anno 1Q84 sono due anni contemporanei ma non paralleli infatti 1Q84 è una diramazione reale del 1984, come un binario che si stacca dal binario originale per divergere totalmente, senza mai essere parallelo al primo. Insomma 1Q84 è una realtà separata.

1Q84 è un libro che parla delle conseguenze delle scelte che facciamo e di come non ci sia una via di uscita che ci porti alla situazione primigenia. E’ un libro che ci insegna che qualsiasi scelta noi facciamo, non è soltanto una scelta; può sembrare facile, addirittura banale, prendere una determinata decisione ma non è così perchè, ogni scelta che noi facciamo, modifica la realtà in cui viviamo; di sicuro non compariranno due lune nel cielo della nostra realtà, non ci saranno grossi sconvolgimenti, ma staremo vivendo una realtà differente da quella che avremmo vissuto prendendo una decisione diversa.

E’ così, ogni scelta che noi decidiamo, ogni bivio che noi prendiamo, modifica la nostra vita, il mondo in cui viviamo; perchè ogni scelta si fa una volta sola. Non c’è la possibilità di cambiarla. Potremo fare altre scelte che negano la prima, ma non potremo mai rifare quella determinata scelta perchè la vita non ha un tasto di reset, non ha un tasto che ci permetta di riavvolgere il nastro e di registrare nuovamente quella certa scena, quella certa scelta che abbiamo preso.

E’ un po’ questo il senso di tutto quanto il libro. Aomame e Tengo sono due persone che decidono e le loro scelte hanno, per loro, delle conseguenze che li portano a ragionare sulla correttezza o meno delle loro decisioni. Ma questo è un semplice esercizio stilistico perchè alla fine la scelta non è modificabile.

Questo è il grande messaggio che esce dal libro di Murakami; Nessuno di noi, una volta fatta una scelta può cambiare quella decisione presa. E’ un libro che ci insegna a prendere la vita con filosofia, a dare il giusto valore alle decisioni che prendiamo ma al contempo ci insegna a vivere nel presente.

E’ un po’ come dire “è inutile crucciarci per le scelte sbagliate che abbiamo preso, ormai siamo a questo punto e non possiamo tornare indietro, non ci viene data questa possibilità.” e per questo motivo dobbiamo andare avanti, scegliere tra le opzioni che abbiamo con grande intelligenza e poi dimenticare che avremmo potuto percorrere altre strade, perchè così facendo continueremmo a guardare il nostro passato che non ci interessa più.

Ci interessa il nostro presente. Quando sarà il momento, quando il futuro diventerà presente allora ci preoccuperemo di quello.

E’ un libro lento, senza che questo rappresenti un limite; è intimo per la numerosa presenza di soliloqui ed è scritto con grande delicatezza e raffinatezza. Anche il racconto delle poche scene di sesso è sempre abbozzato e mai volgare. Un libro che scorre lentamente tra le riflessioni dei due personaggi.

Libro consigliato.

Il fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia

Il fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes edito da Bur – prima edizione (prima parte 1605 – seconda parte 1615).

Dunque, cominciamo chiarendo il significato di “hidalgo”. Dalla fonte Wikipedia traggo “Il concetto di hidalgo ha la sua origine in Spagna e Portogallo, ed è sinonimo di nobile, sebbene colloquialmente si utilizzi il termine per riferirsi alla nobiltà non titolata. La hidalguìa dava diritto ad una serie di privilegi e distinzioni sociali, ad esempio gli hidalgos erano esentati dal pagare le tasse ma non necessariamente possedevano beni immobili. L’attributo veniva trasmesso di padre in figlio per linea maschile. Gli hidalgos erano i secondogeniti di una famiglia; diventavano conquistadores perchè a loro non spettava l’eredità della famiglia”.

Quindi don Chisciotte era un titolato ma non navigava certo nell’oro.

Il romanzo inizia con la presentazione del protagonista, al secolo Alonso Chisciana, un nobiluomo di campagna cinquantenne, che vive in un piccolo paese della Mancia e che dopo aver passato anni a leggere libri cavallereschi impazzisce e decide di diventare cavaliere di ventura ed emulare i grandi cavalieri di cui ha letto le gesta.

Si dota di una armatura (con la visiera in cartone), battezza il suo cavallo Ronzinante, cambia il suo nome in don Chisciotte della Mancia ed elegge a sua dama una contadina del luogo alla quale cambia il nome in Dulcinea del Toboso.

Parte quindi per il suo primo vagabondaggio che però durerà poco infatti dopo qualche disavventura e una buona dose di legnate inflittegli da chi ha sfidato, viene ritrovato alquanto malconcio da un suo compaesano che lo riconduce a casa.

Mentre si riprende dalle botte ricevute, il curato e il barbiere (amici di don Chisciotte) decidono che la causa della pazzia dell’amico stia nei libri cavallereschi della sua biblioteca e così ne bruciano la quasi totalità. Ma ciò non impedisce al cavaliere di rimettersi in piedi e di ripartire alla volta di nuove avventure. Prima però si sceglie uno scudiero, un contadino del paese – Sancio Panza – attratto dalla possibilità di guadagnare e dalla promessa di ottenere un’isola da governare.

E così si forma una delle coppie più celebri della storia della letteratura: il cavaliere alto, magro e allampanato in sella al suo Ronzinante, e lo scudiero basso e tondo in groppa al suo somaro (di questa immagine c’è una bellissima statua in Piazza di Spagna a Madrid).

In questa seconda uscita troviamo alcune delle più celebri avventure di tutto il romanzo tra le quali la battaglia contro i mulini a vento, scambiati da don Chisciotte per dei giganti e quindi sfidati a duello. Quasi tutte le avventure del dinamico duo finiscono con una sconfitta per il cavaliere e alla fine di questa seconda parte don Chisciotte viene convinto dal barbiere e dal curato, attraverso uno stratagemma, a ritornare a casa.

Nella seconda parte del romanzo il nobiluomo si decide ad una terza sortita proprio per affermare i suoi ideali di giustizia, di cortesia, di difesa degli oppressi tanto derisi nel libro appena pubblicato e della cui esistenza don Chisciotte viene a sapere al rientro dalla seconda fuga.

Numerose vicende si susseguono, ma il nostro protagonista ha quasi sempre la peggio; ormai divenuto famoso però è vittima delle beffe di coloro che incontra e lo riconoscono come il folle che si crede un cavaliere errante.

Motivo distintivo di questa seconda parte è però il fatto che non è più don Chisciotte a trasformare la realtà secondo la sua immaginazione (come avveniva nella prima parte), quanto i personaggi intorno a lui, compreso lo stesso Sancio, che lo convincono a compiere stramberie per poterne poi ridere. Anche questa sortita si conclude con il ritorno al villaggio dove don Chisciotte si ammala di una febbre forte che lo aiuta a rinsavire.

Don Chisciotte è un’opera di grande complessità e anche la lettura ha risentito di questa difficoltà; i personaggi creati da Cervantes sono sicuramente universali ed infatti vivono nell’immaginario collettivo avulsi dal contesto storico in cui li ha immersi l’autore.

Delle avventure del cavaliere della Mancia vengono date molte interpretazione ma quella che maggiormente affascina il mio ego di lettore, è quella che vede nell’hidalgo un campione di idealismo costretto a scontrarsi con la prosaica realtà priva di ogni eroismo che si permette anche di canzonare i suoi ideali. Probabilmente, come per l’Amleto di Shakespeare, anche del don Chisciotte continueranno a susseguirsi le più svariate interpretazioni.

Straordinario è, comunque, notare la freschezza di questo romanzo. Un’opera che Cervantes scrisse tra la fine del cinquecento e l’inizio del seicento, ha ancora un’“appeal” fortissima ai nostri tempi. I temi della cavalleria, del rispetto delle regole, dei valori dominanti della vita e dell’amicizia sono ancora i motivi per cui ci si affeziona a questo romanzo dopo essere stati attratti dalle follie del cavaliere.

Insomma si inizia a leggere per ridere delle sue avventure e si finisce con l’affezionarsi ai valori che muovono questo cavaliere.

Libro molto consigliato.

Il viaggio dell’elefante

Il viaggio dell’elefante di José Saramago edito da Einaudi – prima edizione 2008.

Ancora un libro di Saramago? Ebbene si. Questo autore mi piace moltissimo e quindi recensisco ogni suo scritto.

Questo romanzo è diverso dagli altri che ho letto del grande autore lusitano; diverso perchè meno intimista del consueto, meno introspettivo, meno riflessivo.

L’azione si svolge alla metà circa del XVI secolo. Mentre i venti della protesta luterana spazzano l’Europa, a Lisbona fa la sua comparsa l’elefante Salomone che arriva direttamente dalle Indie insieme al suo “cornac” di nome Subhro. Come tutte le cose nuove, Salomone suscita nei lisboeti attrazione e curiosità, ma passato il primo momento di orgiastico interesse, l’elefante Salomone passa la sua vita a mangiare e dormire.

Il sovrano del Portogallo, João III e sua moglie Caterina d’Austria decidono di inviarlo in dono all’arciduca Massimiliano, proprio ora che questi si trova a Valladolid in qualità di Reggente di Spagna.

Il regalo viene accettato, e così si procede ad organizzare la carovana che dovrà accompagnare il portentoso quadrupede ed il suo cornac prima da Lisbona al confine con la Spagna, e poi da Valladolid fino a Vienna, passando per Genova, Verona, Padova e Innsbruck.

Il romanzo è quindi il racconto di questo viaggio, di questa variopinta comitiva di ufficiali, servitori, soldati, preti, cavalli e buoi che, in mezzo a molte difficoltà e tra ali di gente entusiasta, ha il compito di scortare il prezioso dono fino a Vienna, dove l’elefante sarà artefice di un “miracolo” squisitamente umano.

Fin qui il breve riassunto del libro. Ora ci addentriamo tra le pagine alla ricerca delle emozioni, dei profumi, dei sapori che il grande Saramago dispensa a piene mani.

E’ strano come il protagonista di questo libro sia l’unico che in realtà non fa assolutamente niente, si limita a camminare e poi attende che il resto del mondo giri intorno a lui; E così, puntualmente, accade. Quasi una metafora della vita.

Tutto il resto della comitiva è costretta ad adeguarsi al volere di Salomone. E’ lui che conduce il gioco; il suo stesso cornac si guarda bene da provare a fargli fare qualcosa contro la sua volontà; se Salomone ha voglia di fare un pisolino… la comitiva si ferma e aspetta che il pachiderma si svegli.

E’ quasi dicotomico vedere come la comitiva sia percorsa da ondate di attività frenetica, e al contempo Salomone sia placidamente intento a mangiare, bere, dormire o, semplicemente, a non fare niente.

Io interpreto questa dicotomia come quella presente nella società contemporanea dove il popolino (cioè la maggior parte delle persone) si devono affannare per cercare di sopravvivere, e invece pochi eletti (qua rappresentati dal pachiderma) possano vivere serenamente serviti e riveriti di tutto punto senza nemmeno aver bisogno di impegnarsi molto.

Il personaggio di Salomone però non è un personaggio “negativo” infatti spesso, nel corso del romanzo, ha degli slanci di affetto che lo portano a realizzare azioni che sorprendono il suo stesso cornac (e noi lettori con lui) per intensità e profondità.

E’ triste realizzare come tutti gli altri personaggi del libro, peraltro raccontati splendidamente dalle parole dell’autore, siano un contorno all’elefante. Gli stessi arciduchi con la loro prosopopea, sono solo comparse che elevano, in controcanto, una sperticata lode al pachidermico regalo ricevuto dal sovrano del Portogallo.

Grandissima l’abilità di Saramago che, come al solito, ci racconta una storia nell’intento di raccontarne due; infatti, mentre ci racconta la storia del magnifico viaggio dell’elefante Salomone, parallelamente ci informa sulla situazione socio-policito-culturale della penisola iberica del XVI secolo.

Il metodo di scrittura è quello tipico del miglior Saramago. Punteggiatura quasi inesistente e frasi appiccicate le une alle altre ma, nonostante questa piccola fatica, il libro scorre costante al ritmo del viaggio dell’elefante.

Libro consigliato.

 

La grande bugia

La grande bugia di Gianpaolo Pansa

sottotitolo: “Le sinistre italiane e il sangue dei vinti” edito da Sperling Paperback – prima edizione 2006.

Ho riflettuto a lungo sull’opportunità di recensire o meno questo libro di Pansa perchè è indubbiamente uno scritto scomodo; Scomodo per l’autore che è stato accusato di revisionismo dall’intellighenzia di sinistra, e pericoloso per il mio piccolo blog visto che potrebbe attirarmi una grandinata di commenti negativi.

Quello che però mi ha convinto a pubblicare il commento, accada quel che accada, è la certezza che se non lo facessi piegherei la mia libertà ad un silenzio colpevole e la mia persona ad un comportamento non consono con le mie convinzioni di libertà.

Giampaolo Pansa è un giornalista di sinistra (è lui stesso che si definisce così nel corso del libro) che, fin dai tempi della laurea, ha studiato il periodo fascista e gli avvenimenti successivi alla fine di quella che lui chiama “guerra civile” terminata con il 25 aprile.

Se il suo sguardo indagatore si fermasse a questa data probabilmente poco o nulla si potrebbe muovergli come accusa; invece l’autore si interessa anche di tutte quelle “azioni” compiute dai partigiani successivamente alla liberazione, e che assomigliano moltissimo a rivalse o vendette nei confronti dei fascisti o dei loro sostenitori.

Nel corso del libro, parlando di sé stesso, Pansa si definisce “un autore che è sicuramente un antifascista e anche un uomo di sinistra, ma che non sta al galateo della vulgata, come si osa dire. Ossia della storia più retorica e parziale dell’antifascismo e della Resistenza”.

Non sarà presente alcuna opinione personale perchè, non essendo io uno storico e avendo conoscenze lacunose del periodo in analisi rischierei di espormi ad errori marchiani. Lascio ogni commento a chi sia convinto di conoscere abbastanza approfonditamente quel periodo e quegli accadimenti.

Dopo questo preambolo assolutamente necessario vediamo cosa ha da raccontarci questo libro.

E’ un saggio duro, documentato e scomodo che mette in discussione il mito resistenziale e il ruolo giocato dai comunisti nel costruirlo. Pansa replica in pratica a chi rifiuta qualsiasi forma di ripensamento o di autocritica.

Il ritratto reticente, incompleto, spesso falso della nostra guerra civile, delineato e protetto per sessant’anni dalle sinistre italiane, è quel che l’autore definisce la Grande Bugia.

Uno scudo dietro cui si sono nascosti tanti di coloro che hanno cercato di screditare il suo lavoro: politici, giornalisti, baroni universitari, furbetti del quartierino storiografico, antifascisti autoritari. Tutti citati in questo libro con tanto di nome e cognome e descritti nella loro sterile faziosità.

Un libro di battaglia politica e civile, percorso da una cattiveria allegra, che a tratti assume toni al vetriolo.

Pansa così chiarisce i motivi per cui certa sinistra si accanisca tanto contro i suoi lavori che, in fondo, provano a mettere una luce in certi angoli bui, senza tentare di travisare la storia, cercando esclusivamente di chiarire alcuni comportamenti oscuri: “Agli occhi degli esorcisti (chiama così quelli che attaccano il suo lavoro) la mia colpa peggiore è stata di infrangere nello stesso momento, due tabù. Il reato numero uno è stato di raccontare senza peli sulla lingua il nostro dopoguerra di sangue, un tema pericoloso, da lasciar maneggiare soltanto a mani più prudenti delle mie, quelle degli storici professionisti.

Il reato numero due era connesso al primo: mi ero permesso di farlo senza appartenere alla corporazione degli storici di sinistra, il sotto-clan più potente e più coeso nel grande clan degli accademici, i docenti che siedono su una cattedra universitaria”.

In fondo forse, il motivo di tanta rabbia verso Pansa è soltanto il fatto che abbia osato far tornare rosso e reale il sangue dei vinti. Che abbia ricordato a tutti i lettori che, indipendentemente dalla ragione o dal torto, dallo stare dalla parte giusta o sbagliata della storia, anche tra i vinti ci sono state persone (di cui molti giovani e giovanissimi) che hanno combattuto per i propri ideali, e che sono stati uccisi non sempre in guerra, ma spesso in azioni che avevano tutto l’aspetto di vendette feroci.

Libro duro e crudo ma sicuramente consigliato a chi ha la mentalità aperta e la voglia di provare ad ascoltare una storia nota raccontata da un punto di vista diverso dal consueto.