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Dalla parte di Swann

Dalla parte di SwannMarcel Proust, edito in un miliardo di case editrici e in un miliardo di formati, prima edizione 1913.

Primo degli otto romanzi che compongono l’opera gigantesca di Proust “La ricerca del tempo perduto”, questo romanzo racconta nella prima parte l’infanzia del protagonista Charles Swann, che per qualcuno è l’alter ego di Proust stesso, nel villaggio di Combray. Nella seconda parte invece ci viene raccontato dell’innamoramento di Swann per una giovane e non meglio identificata ragazza di nome Odette. Infine, nella terza ed ultima sezione che compone il romanzo, Proust ci racconta di Gilberte, figlia di Swann e Odette.

Delle tre parti quella che maggiormente mi ha colpito è stata la prima non fosse altro per la presenza di due elementi. Uno degli incipit più banali che siano mai stati concepiti da mente umana “Per molto tempo, sono andato a letto presto” e, secondo, per l’episodio della madeleine.

Le madeleine, per chi non lo sapesse, sono dei tipici e soffici dolci lievitati con una caratteristica forma di conchiglia, tipici della cucina francese.

Nel romanzo l’io narrante ci racconta di come sia rimasto impresso nella sua mente il sapore delle madeleine che era abitudine mangiare la domenica mattina prima della messa a Combray. Il gusto del piccolo pasticcino intinto nel te caldo apre, nella mente del narratore il primo degli esempi di memoria involontaria che caratterizzeranno tutti i libri della Ricerca.

La seconda parte del romanzo, intitolato, “Un amore di Swann” ha un ritmo più rapido ed anche un interesse maggiore visto che finalmente Swann si innamora perdutamente di Odette de Crecy, che conosce ad una serata mondana nel salotto mondano di Madame Verdurin. Odette è una raffinata, esclusiva donna di mondo molto più attenta ai propri interessi che non alle sofferenze inflitte agli altri. E questo lo imparerà bene il povero Swann.

Vedremo Swann correre dietro alla ben introdotta Odette, perdere il senno ed il sonno dietro a questa banderuola che un giorno corrisponde ai suoi sentimenti ed il giorno successivo lo tratta come se si fosse inventato tutto. Questa parte è il racconto esatto di quanto può annullarsi, e rendersi ridicolo un uomo quando è preso dai sentimenti d’amore.

All’inizio della terza parte intitolata “Nomi di Paesi: il nome”, il romanzo cambia ancora diventando una sorta di diario di viaggi immaginari partendo dal Combray che è e resterà per sempre il piccolo scrigno che contiene i ricordi dell’infanzia.

Questo mondo, così chiuso in se stesso e protettivo, si contrappone ai paesi che l’autore desidererebbe visitare, fantasticando a lungo sui loro nomi. Grande attrattiva hanno, per l’autore, due luoghi. Balbec e Venezia.

Anche se questo romanzo è l’incipit di una delle storie più lette ed apprezzate dell’intero mondo, devo dire che non mi è piaciuto, l’ho trovato lento, melenso e appiccicoso come le ragnatele.

Nella prima parte seguire l’infanzia di questo bambino con tutte le sue storie, le sue paure infantili, ed il suo tormentatissimo rapporto con la madre mi ha fatto sbadigliare più di una volta; nella seconda parte, ad un primo momento di piacere quando il ritmo accelera è seguito subito lo scoramento quando, dopo due pagine, si capisce di che pasta è fatta la tanto dolce e bella Odette; e la terza parte l’ho trovata inutile e noiosa. Forse ha un senso come prodromo del secondo volume.

Lo stile attraverso cui Proust ci racconta questa storia è quello che caratterizza buona parte della letteratura francese di fine ottocento. Lunghissimi periodi, lunghissimi pensieri che raccontano di minuzie, di aliti di vento che fanno lentamente dondolare una tenda e quel dondolio apre una porta, riportando alla memoria di quella volta in cui…, facendo entrare qualsiasi tipo di ricordo. La lettura l’ho trovata abbastanza pesante, forse perché la trama è molto leggera e i personaggi sembrano perennemente impegnati nel ballo di un minuetto.

Forse se avessi trovato un motivo  per continuare con il secondo romanzo, il mio giudizio non sarebbe così negativo.

Libro non consigliato.

Il caso Malaussène – Mi hanno mentito

Il caso Malaussène – Mi hanno mentito di Daniel Pennac, edito da Feltrinelli – prima edizione 2017.

Questo romanzo è come un fiume che si forma dall’unione di tanti torrentelli; questi, prima di diventare fiume giocano, esplorano, si divertono, si avvicinano e poi subito si allontanano; si uniscono per dividersi subito dopo; convergono per divergere immediatamente, quasi avessero paura di annullare la propria unicità senza capire che proprio la somma delle loro personalità creerà l’anima e il carattere del fiume.

Ci sono un sacco di storie in questa ultima fatica del buon Daniel Pennac. Ovviamente c’è la storia di Benjamin che, come è previsto dall’ordine naturale delle cose, diventa presto secondaria rispetto a tutte le storie dei “bambini” della famiglia.

C’è il rapimento di un personaggio molto molto importante per cui viene presentata una richiesta di riscatto che è allo stesso tempo ingentissima e di una ingenuità incredibile.

C’è l’amore di Benjamin per la sua bellissima donna, c’è ovviamente la presenza del cane Julius che è lui ma non è lui, nel senso che non è lo stesso cane dei libri che lo hanno preceduto, ma che rappresenta ancora l’archetipo del cane dei Malaussène.

Ci sono tutti i personaggi della famiglia e soprattutto ci sono i fratelli di Benjamin che sono diventati adulti, hanno una propria vita che inorgoglisce Benjamin e lo preoccupa allo stesso tempo.

I fratelli richiedono una informazione supplementare. Bisogna ricordare che sono tutti fratelli perché la mamma è comune (e ogni volta che finisce un amore, torna a casa incinta fino alle orecchie), ma che sono tutti figli di padri diversi. Tutti amati e amanti alla medesima maniera ma tutti fratelli a metà.

Come sempre accade nei romanzi di Pennac, Benjamin si ritroverà, suo malgrado, invischiato nella indagine di polizia relativa al rapimento del personaggio, con la differenza che, mentre nelle altre avventure lo sfortunato protagonista aveva sentore della “sfiga” che stava per colpirlo, questa volta il tutto accadrà senza che lui ne abbia la minima avvisaglia. No, Benjamin non è diventato più stupido di quanto già non fosse, è che questa volta la sua attenzione è totalmente dedicata allo svolgimento del lavoro che la Regina Zabo (capo delle Edizioni del Taglione) gli ha assegnato. Proteggere il famoso scrittore che è la nuova gallina dalle uova d’oro, e che gli stessi familiari dell’autore vorrebbero eliminare per impedirgli di scrivere un altro libro con cui screditare la propria famiglia.

Consapevole di aver raccontato tanto ma di non aver detto assolutamente nulla del romanzo (anche perché si tratta di un giallo e quindi “zitto!”) voglio attirare l’attenzione sul sottotitolo del libro. Quel “Mi hanno mentito” che sembra messo lì per caso e invece ha un grande significato. Chi ha tradito chi? E perché? Lo scopriremo leggendo questo bel racconto.

Le capacità scrittorie e descrittive di Pennac non devo certo lodarle io perché sono note ai più.

Non saprei dirvi se questo è il più bel libro di Malaussène o il peggiore. Sicuramente l’intreccio della storia è tale che ne permette una lettura scorrevole e affascinante. Non consiglierei a chi vuole avvicinarsi al mondo fantastico di Malaussène di iniziare da questo libro, perché i riferimenti ai libri precedenti sono tanti ed è sicuramente più divertente aver conosciuto quegli episodi direttamente che non sotto forma di riassunto.

Da questa mia recensione può sembrare che il libro non mi sia piaciuto ed invece, proprio come è sempre accaduto con tutte le altre storie della famiglia, anche questa volta il grande fiume mi ha abbracciato, mi ha portato a fare un viaggio in territori sicuramente inesplorati per me e, quando mi ha liberato dal suo abbraccio, tutta la mia pelle, fisica e psicologica, era impregnata dalla dolcezza della storia e dall’amore che tracima da questi personaggi per avvolgere il lettore.

Tipico dei libri della saga di Malaussène è il fatto che “o si amano alla follia o non si possono sopportare”.

Libro consigliato.

Il paradiso degli orchi

Il paradiso degli orchi di Daniel Pennac edito da Feltrinelli prima edizione 1985.

A differenza di come faccio di solito, presento subito il protagonista di questo romanzo. “Mi chiamo Benjamin Malausséne e di mestiere faccio il capro espiatorio lavoro nel Grande Magazzino e la mia famiglia è un po’ particolare”.

Ebbene sì, si potrebbe dire che il nostro eroe sia un uomo un po’ strano. Vive nel quartiere parigino di Belleville e in questo romanzo, che è il primo del ciclo di Malausséne, lo vediamo alle prese con un bombarolo. Ma andiamo per ordine.

Belleville è un quartiere popolare abitato da immigrati di varie etnie che si trova nei pressi del famoso cimitero Pére Lachaise. E’ una cornice viva e vitale alla grande follia di questa famiglia.

Benjamin si prende le strigliate dal suo capo quando i prodotti venduti dal Grande Magazzino non funzionano bene ed i clienti vogliono fare reclamo. E’ molto portato per il suo lavoro perchè, quando il suo capo lo “cazzia”, si produce in una tale serie di umiliazioni auto-inflitte che riesce a stimolare la pena dei clienti al punto da far ritirare loro il reclamo. E’ un lavoro duro ma qualcuno dovrà pur farlo.

Nonostante sia molto abile nella sua strana professione, Benjamin non è stimato dai colleghi e nemmeno dai suoi capi. Ma la vera fortuna di Malausséne è la sua famiglia. Ha molti fratelli (per i quali è quasi un padre) e ha una madre che è uno spirito libero dall’innamoramento facile. E’ una donna che spesso scompare per lunghissimi periodi, tornando incinta e abbandonata dall’ennesimo grande amore della sua vita. Parte integrante della famiglia è il cane Julius che soffre di crisi di epilessia.

Questa avventura prende le mosse da una serie di esplosioni che avvengono nel Grande Magazzino. Ovviamente Malausséne è immediatamente sospettato di essere il bombarolo per il lavoro che svolge ma soprattutto perchè è sempre presente al momento dell’esplosione.

Benjamin per evitare di essere arrestato deve, suo malgrado, trasformarsi in detective e provare a scoprire chi è il vero assassino. Fin da subito appare chiaro che il fulcro di tutta la storia è proprio il Grande Magazzino infatti, si scopre che durante la seconda guerra mondiale nei suoi reparti, venivano torturati e uccisi dei bambini da una serie di uomini che sono i vecchietti che ora frequentano assiduamente il magazzino sotto il severo controllo di Theo. Sono ovviamente gli Orchi del titolo.

A questo punto fa il suo ingresso a sorpresa un nuovo personaggio. Si tratta della bella giornalista Julie che aiuterà Malausséne nella sua indagine e della quale il nostro protagonista si innamorerà seduta stante.

Tutto il racconto è scandito dalle storie che Benjamin racconta ai propri fratelli piccoli la sera quando li mette a dormire. Ci aspetteremmo fiabe ed invece sono racconti macabri (ma da una famiglia come questa, cosa altro aspettarci?).

Grazie al piglio di Julie, all’inciampare di Malausséne negli indizi e alla nullità delle forze di polizia che investigano sul caso, il nostro protagonista giungerà a svelare il mistero sugli attentati proprio un momento prima che ai suoi polsi scattino le manette della giustizia.

E’ un romanzo bellissimo e io mi sono divertito tantissimo a leggerlo. Non ha alcuna pretesa di trasmettere alcun messaggio anche se, alla fine di tutto, forse una sua morale ce l’ha anche.

Scritto magistralmente da Pennac che dosa con sapienza ironia e ilarità, il romanzo scorre placido con invenzioni stupefacenti di pagina in pagina. E ci si ritrova alla fine del libro innamorati dei protagonisti e certi di aver letto una grande storia.

I personaggi non sono minimamente raccontabili. Cercare di rinchiudere i membri della famiglia Malausséne in una definizione è come cercare di afferrare il fumo con le mani. Sono troppo fuori dagli schemi e non si può fare a meno di amarli.

Il ciclo di Malausséne si compone di questi altri titoli: “La fata carabina”; “La prosivendola”; “Signor Malausséne”; “La passione secondo Thérèse”; “Ultime notizie dalla famiglia” anche se devo ammettere che l’ultimo mi ha un po’ deluso.

Libro consigliatissimo per una bella vacanza con il sorriso.

La mappa del destino

La mappa del destino di Glenn Cooper edito da Editrice Nord – prima edizione 2011

Questo libro non funziona, o forse non funziona per me. Ho già letto altri due libri di Cooper, “La biblioteca dei morti” e “Il libro delle anime”, e ricordo che non mi avevano particolarmente affascinato. Questo terzo libro “La mappa del destino” è la conferma in peggio di quelle sensazioni che avevo avuto nel corso della lettura degli altri libri.

Come i due precedenti è un libro che non conquista la mia attenzione, la mia curiosità.

Il libro va in tante direzioni senza, realmente prediligerne una. Teoricamente il libro dovrebbe raccontare di una grande scoperta, il ritrovamento di una caverna abitata da uomini primitivi, con pitture rupestri alle pareti, ma nel prosieguo del libro si intrecceranno altre storie;

Ci sono delle particolarità in questa caverna; Non vengono rappresentati, come al solito, soltanto gli animali o scene propiziatrici della caccia, ma anche delle piante, nello specifico tre piante; questa cosa è particolarmente strana e il protagonista del libro che è un paleontologo francese molto famoso.

Nel dipanarsi degli eventi, il protagonista dovrà affrontare parecchie difficoltà e scoprire che le tre piante rappresentate sui muri della caverna sono gli ingredienti di una mistura “magica”, che ha poteri molto particolari.

Parallelamente a questa prima storia, l’autore ne racconta altre due; una è appunto il racconto della vita dei primitivi che abitavano la valle ove si trova la caverna e di come abbiano realizzato le pitture per raccontare la loro vita. Questo racconto ci permette di studiare le reali condizioni di questo gruppo, le loro meccaniche sociali e la loro storia.

Il terzo filone che troviamo è quello della vita di San Bernardo da Chiaravalle che viene tirato in ballo in quanto la grotta contenente i dipinti, viene reperita nelle vicinanze di un monastero dove, dopo un incendio,i frati trovano un manoscritto in cui si racconta della grotta e delle piante in essa rappresentate.

Nel corso del libro l’autore riesca a portare avanti parallelamente i tre racconti fino poi a congiungerle sul finale.

La storia non è nemmeno brutta, potrebbe anche essere un qualcosa di valido ma, forse lo stile di scrittura di Cooper, forse il fatto che per i primi capitoli il racconto del libro sia assolutamente slegato, fa si che non abbia conquistato il mio desiderio di continuare la lettura. L’ho portato a termine perchè, in fondo, è un libro anche relativamente piccolo. E’ un libro che, una volta terminato non lascia assolutamente nessun tipo di impressione.

I personaggi sono poco caratterizzati, poco raccontati, poco dipinti; forse solo il personaggio principale, tale Luc Simard è sufficientemente raccontato dall’autore.

Essendo scritto come un giallo non posso rivelare troppo di quello che c’è nel libro. Certamente forse se questa storia l’avesse raccontata un Simenon, un Camilleri, un Agatha Christie o forse solo un Wilburs Smith sarebbe stato un grandissimo successo; purtroppo lo stile di scrittura di Cooper pregiudica lo splendore che si poteva mettere in questo libro.

Non c’è molto altro da dire. L’ho trovato un libro banale che non lascia nulla nei ricordi del lettore e probabilmente sarà l’ultimo libro di Cooper che leggerò visto che nemmeno gli altri due mi erano particolarmente piaciuti.

Libro non consigliato.